CHI MIGRA
Il viaggio di Ibrahima
chapter 2

Il viaggio di Ibrahima

«Si avvicinava il Capodanno del 2017, mia zia – che è stata come una mamma per 16 anni – sapeva che sarei andato a Dakar con il mio migliore amico Mouhamed per festeggiare». Mouhamed, invece, conosceva la verità. «Lui ha sempre saputo tutto di me, e del sogno che ho...» Ibrahima Lo sospende la frase e si arriccia i capelli. Poi riprende a parlare, di Mouhamed. «Siamo cresciuti insieme a Mbacké, specie dopo che la mia mamma e il mio papà sono morti. E’ stato lui a prestarmi buona parte dei soldi, con i risparmi del suo lavoro, per affrontare il viaggio dal Senegal all’Europa.»

Mbacké, città interna del Senegal, e l’isola di Lampedusa, località europea più vicina all’Africa, in linea d’aria distano 3.655 km. Per percorrerli un migrante senegalese senza visto deve attraversare il Mali, poi il Niger, poi la Libia. In mezzo, il deserto. Infine, il Mediterraneo. Per un totale di quasi 12.000 km. Millecinquecento in più di quelli che occorrono per andare da Roma a Pechino via terra. «Servono settimane, a volte mesi, dipende molto dai percorsi che fai per evitare i posti di blocco». Ma soprattutto servono i soldi, “per sbloccare le tappe”, come in una specie di videogame in cui ogni città è una prova. «Io sono partito con 800 mila sefa senegalesi in tasca – equivalenti a circa 900-1.000 euro – e un sogno nella testa.»Eccolo, finalmente, il sogno di Ibrahima, che sorride ed entra dritto nei miei occhi. «Sono partito per l’Europa perché voglio diventare un giornalista»

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Ibrahima Lo, migrante e scrittore

Così il 30 dicembre Ibrahima e Mouhamed partono per festeggiare il Capodanno. «Direzione: Dakar per la zia, Kaolack nella realtà», ricorda Ibrahima nel suo libro “Pane e acqua”, pubblicato nel 2020 per Villaggio Maori Edizioni, in cui racconta, in 91 pagine, la storia del suo viaggio verso l’Europa. Kaolack è una città portuale da cui partono molti dei pullman diretti a Bamako, capitale del Mali. «Il mio partì di sera, ricordo ancora il boom boom dei fuochi d’artificio mentre lasciavo Kaolack», oltre 200.000 abitanti che ruotano intorno a una delle moschee più importanti del Senegal, paese a prevalenza musulmana. E’ lì che Ibrahima e Mohamed si separano, in un parcheggio che nei loro ricordi è fermo ancora a quell’abbraccio.

Oltre a 800 mila sefa, Ibrahima ha in tasca i suoi documenti. Uscito dal Senegal, a ogni controllo di polizia, quei documenti diventeranno “una spia” del suo essere un migrante irregolare. Per proseguire il viaggio e non essere rimpatriato in Senegal, d’ora in poi, non avrà altra scelta: evitare gli ostacoli o superarli. E per superarli c’è solo un modo: pagare.

«Per ingannare i controlli al confine con il Mali l’autista aveva finto che fossi un suo aiutante, mi aveva dato degli stracci per pulire i vetri, ma i poliziotti, una volta saliti a bordo per controllarci, si erano subito resi conto che ero un clandestino: mi facevano domande in bambara, la loro lingua, e io rispondevo in wolof, il mio dialetto.» Ma quell’uomo con i baffi alla guida aveva deciso di aiutarlo, e andò fino in fondo. «Alla fine fu lui a pagare per me e a portarmi fino a Bamako», ricorda Ibrahima, che mi racconta come il regista Matteo Garrone abbia letto il suo libro e lo abbia cercato durante la scrittura del suo ultimo film "Io Capitano", selezionato per rappresentare l'Italia agli Oscar nel 2024.

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Ibrahima Lo a sx con il regista Matteo Garrone

«Siamo arrivati a Bamako dopo due giorni, lungo il tragitto in pullman ci eravamo fermati più volte, soprattutto di notte, in delle specie di grandi garage dove scendevamo per dormire, stesi su grandi pavimenti di cemento.» Bamako è la capitale del Mali, con i suoi quasi due milioni e mezzo di abitanti rappresenta uno dei due snodi principali nel paese per chi migra dal Senegal verso l’Europa. L’altro è Gao, una città non distante dal confine col Niger, che preannuncia il deserto. Vista dall’alto sembra un plastico di terracotta, con qualche ciuffo d’albero selvaggio che sbuca qua e là dai cortili.

Gao è una città contesa tra i jihadisti pro Isis e quelli pro Al Quaeda, due organizzazioni terroristiche nate con l’obiettivo comune di sradicare le influenze occidentali dai paesi musulmani, ma entrate spesso in conflitto in diverse aree dell’Africa Subsahariana. «A Gao per la prima volta ho visto un carro armato», ricorda Ibrahima, «di lì in poi un militare maliano affiancò il nostro autista per evitare i blocchi dei terroristi e farci uscire dalla città». Direzione Niger, precisamente Agadez, città-chiave alle porte del deserto, che in lingua tamasheq significa “luogo di incontro”.

Agadez dista quasi 3500 chilometri da Kaolack, la città dove Ibrahima ha lasciato Mohamed. «Lo chiamai per dirgli che ero arrivato in Niger, lui mi chiese del viaggio e mi raccontò di quando, tornato a Mbacké, aveva confessato a mia zia che ero in viaggio per l’Europa, di quanto lei avesse pianto.» Poi d’improvviso Mouhammed fa la voce seria. «Non mollare Ibrahima, mi ha detto, poi mi ha mandato dei soldi e il contatto di un senegalese che mi avrebbe aiutato ad attraversare il deserto.» Mohamed non lo sa, non può saperlo, ma quell’uomo, di nome Demba lavora come intermediario per i trafficanti di esseri umani in Niger. «Fu lui ad accompagnarmi in una conecsion». Le conecsion, in inglese “house connection”, sono case incompiute dove i migranti, una volta finiti nella rete dei trafficanti, aspettano di proseguire il viaggio.

«Il Niger è il paese-chiave di questa migrazione – osserva Federico Alagna, ricercatore alla Normale di Pisa, specializzato in politiche migratorie – e questo spiega il ruolo attivo che l’Europa sta svolgendo, affidando il controllo delle sue frontiere a paesi terzi come il Niger, pur consapevole di aggravare le condizioni dei migranti sulla rotta.» Si riferisce agli aiuti pubblici per lo sviluppo del paese che vengono erogati dall’Unione Europea a partire dal 2015, ma solo ad alcune condizioni. «Una di queste è stata obbligare il Niger a introdurre nel suo ordinamento il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, per cui le attività di aiuto ai migranti che prima si svolgevano con lo spirito di facilitare l’attraversamento del deserto sono diventate attività criminali.» E così anche i facilitatori, in inglese “smuggler”, si sono trasformati in criminali a tutti gli effetti. «Il risultato dell’intervento in Niger da parte dell’Unione Europea è che anche in questo paese ora la rotta è più violenta, controllata da trafficanti di esseri umani senza scrupoli, che stanno trasformando le conecsion in vere e proprie prigioni.»

Nonostante numerosi rapporti delle organizzazioni internazionali documentino come i fondi europei ai Paesi in via di sviluppo stiano compromettendo i diritti umani dei migranti, come riporta il report Oxfam pubblicato nel settembre 2023 la Commissione Europea ha confermato nel budget 2021-2027 ben 667 milioni di euro di finanziamenti che vengono erogati attraverso lo strumento europeo di cooperazione e aiuto umanitario (NDCI).

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Agadez

Ibrahima trascorrerà un mese in una delle conecsion di Agadez, prima di ripartire per la Libia. Il viaggio di un migrante generalmente riprende quando l’abitazione si riempie. A quel punto i trafficanti inviano alle conecsion dei grandi pick up – fuoristrada che al posto del bagagliaio hanno un grande cassone – su cui vengono caricati zaini e persone, anche cinquanta per volta. «Ricordo il rumore dei pick-up, arrivarono a notte fonda nel cortile della conecsion. Preparai lo zaino in fretta, ripetendomi in testa la lista di cose che il cocseur ci aveva consigliato di portare per nel deserto.»

C’è tutto. Ora il Sahara è alle porte. In fila indiana tutti i componenti della conecsion aspettano che un uomo col turbante chiami il loro nome. Si stropicciano gli occhi, qualcuno chi si curva per accarezzare un bambino. D’un tratto, l’urlo più atteso: «Ibra-hima-Lo». «Quando chiamarono il mio nome avevo il cuore a mille. Tirai fuori gli ultimi soldi dalle tasche e montai sul pick-up. Partimmo alle due e mezzo di notte.».

«Wan fulus?» in arabo vuol dire «dove sono i soldi?». Sono le prime parole ascoltate da Ibrahima dopo aver varcato il confine con la Libia. Si trova in una specie di posto di blocco nel deserto. Dall’altra parte c’è un uomo bruno in uniforme, agita un bastone e si muove come un buttafuori. Ibrahima – che non conosce l’arabo ma, soprattutto, non ha più denaro con sé – non capisce cosa sta per succedergli. Iniziano le bastonate – «una, fortissima, mi spezzò quasi un braccio» – aumenta la confusione dentro e fuori la sua testa – «non capivo se questi uomini fossero o meno dei poliziotti, in Libia non c’è differenza» – le sue labbra si fanno bianche. Poi lo portano via, piegato dentro il portabagagli di un’automobile, diretto prima a Sebha e poi a Sabrata, città portuale con affaccio sul Mediterraneo, nel nord-est della Libia. «Quando scesi ricordo che faticavo a stare in equilibrio, vedevo tutto bruciato. Mi ritrovai di fronte una struttura che da fuori somigliava a una conecsion. Dentro, invece, era una prigione.»